Ripropongo per intero l’articolo che Lucio Brunelli ha scritto e pubblicato nel suo blog con il titolo: Donald, Bibi e i cristiani di Gaza. A cui aggiungo solamente la cifra della loro presenza negli ultimi anni, e quella attuale, veramente ai minimi termini, al punto che per la prima volta nella sua storia, la Comunità Cristiana di Gaza – una delle più antiche del mondo, risalente al primo secolo – è a rischio di estinzione. Secondo alcune stime, negli anni Sessanta del Novecento vi erano circa 6000 cristiani nella Striscia di Gaza, un numero che da allora è calato drasticamente. Chi ha potuto è scappato, andando a ingrossare le fila della diaspora palestinese. Prima dell’assedio israeliano nel 2007 i membri della comunità erano calcolati in 3000 circa, mentre all’inizio dell’attacco dell’ottobre 2023 sono scesi a poco più di un migliaio di persone. In questo momento potrebbero essere non più di ottocento, a maggioranza ortodossa. Di loro parla Brunelli.
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(Lucio Brunelli). Il presidente americano Donald Trump non ha mai pronunciato una sola parola pubblica di biasimo per le stragi di civili innocenti provocate dai bombardamenti israeliani ogni giorno, da 21 mesi, nella Striscia di Gaza. Ventimila bambini uccisi e mai un sussulto pubblico di indignazione e condanna. Anzi, Netanyahu è stato sempre accolto come un grande amico alla Casa Bianca e ha ricambiato le cortesie candidando cinicamente Trump al Nobel per la pace. L’unico piano di pace a cui Trump ha fatto riferimento finora prevede la trasformazione della Striscia in un resort di lusso con la rimozione delle macerie degli edifici distrutti (sono già oltre il 70 per cento del totale) e il trasferimento di due milioni di palestinesi in altri paesi (le ultimi indiscrezioni parlano di nazioni come la Libia, l’Etiopia e l’Indonesia). Pazzesco.
Il 17 luglio Trump ha rotto il suo silenzio di fronte alla cannonata di un carro armato israeliano che ha colpito il tetto della chiesa della Sacra Famiglia di Gaza city, provocando la morte di tre parrocchiani e il ferimento di numerosi altri, tra cui in modo lieve anche il parroco Gabriel Romanelli. A questa comunità tutti noi cattolici siamo particolarmente affezionati. Il nome della parrocchia ricorda il passaggio della sacra famiglia proprio a Gaza, nella sua fuga verso l’Egitto per scampare alla paranoia sanguinaria di Erode. Sappiamo delle telefonate quotidiane di papa Francesco che, già malato, confidava il desiderio di visitare questa piccola comunità arabo-cristiana, per confortare i fedeli e lanciare un messaggio potente a tutto il mondo contro la disumanità di questa guerra. Non sappiamo cosa sia scattato invece nella mente di Trump, ma evidentemente anche a lui l’attacco a un luogo sacro cristiano è sembrato troppo. Ha alzato la cornetta e ha intimato al premier israeliano di scusarsi direttamente con il Papa. Netanyahu ha ubbidito. Ha chiamato Leone XIV mostrandosi rammaricato per “l’errore di tiro”, ha autorizzato la visita del cardinale Pizzaballa alla comunità di Gaza city (con un generoso carico di aiuti umanitari), ha permesso che uno dei feriti più gravi fosse curato in un ospedale israeliano. Bene, non si poteva non esserne contenti. Il giorno stesso, però, e nei giorni seguenti i raid israeliani sono continuati allo stesso modo con decine di palestinesi uccisi mentre erano in fila per il cibo.
Una cosa va detta con chiarezza: provare orrore e indignazione di fronte a tale scempio umano fa parte dello stesso sentimento cristiano che fa sentire così cara la parrocchia di Gaza. Così, appartiene allo stesso senso cristiano il rispetto della libertà religiosa, anche per chi professa un’altra fede. La distruzione indiscriminata di decine di moschee (pur ammettendo che alcune possano essere state utilizzate da Hamas come basi militari) è una ferita inferta alla coscienza di ogni credente.
Insomma, i gesti positivi di attenzione alla minoranza cristiana, non accompagnati da una reale volontà di porre fine alla carneficina in corso da mesi, danno inevitabilmente l’impressione di un trattamento speciale. Che non risolve alla radice nemmeno i problemi della comunità cristiana locale, che sono i problemi di tutti (l’assedio, l’assenza di prospettive economiche, la mancanza di futuro) e al contempo può esporla a tragici risentimenti da parte della restante popolazione, ridotta alla fame. Sami Abuomar, un palestinese di Gaza che ha studiato odontoiatria a Pisa e collabora con una ong italiana, ha scritto su Facebook un post amaro ed emblematico: «Tutte le moschee di Gaza sono state distrutte e nessuno si è mosso. Giovani e anziani sono morti di fame e nessuno si è mosso. C’è stata una diffusa indignazione internazionale contro gli israeliani per l’attacco alla chiesa di Gaza l’altro ieri. Trump ha rimproverato Netanyahu, e quest’ultimo si è scusato. Era come se il mondo intero stesse dicendo all’occupazione israeliana: “Ci sono due milioni di musulmani a Gaza e non potete uccidere nessun altro”». Sami è musulmano, ma non è un integralista e non nutre ostilità verso i cristiani. Il 18 luglio, sempre su fb, aveva condiviso un franco elogio del parroco della Sacra Famiglia: «La Chiesa cattolica a Gaza City, guidata da padre Gabriel Romanelli, ha sempre tenuto le porte aperte per tutte e tutti. Nei 10 anni di Carovane di scambio culturale, abbiamo incontrato questo uomo e partecipato a diversi momenti di conoscenza e confronto coi frequentanti della Chiesa situata a Omar al Mukhtar Street, nel centro della città vecchia di Gaza City. Prima di quest’ultimo feroce e indescrivibile assedio, questo luogo era frequentato da giovani e meno giovani, cristiani o musulmani non faceva la differenza; c’erano attività sociali, educative e momenti di raccolta. Abbiamo avuto il privilegio di visitare questo luogo, che al suo ingresso aveva una targa antica con su scritto “Reginae Palestine”, e al suo interno decine di persone».
La minoranza arabo cristiana in Terra santa ha sempre cercato un modo di convivere in pace con gli arabi musulmani, senza rinunciare alla integrità della propria fede; con realismo, senza ingenuità, e nello stesso tempo sentendosi parte dello stesso popolo senza patria e senza terra.
Anche oggi nell’angelus domenicale Leone XIV ha pronunciato parole ferme contro la “barbarie” della guerra, pregando per le vittime del bombardamento della parrocchia che si “aggiunge – ha rimarcato il Papa – ai continui attacchi contro la popolazione civile e i luoghi di culto” (da notare l’uso non casuale del plurale). Significativa anche la condanna di ogni forma di “punizione collettiva” e degli “spostamenti forzati della popolazione”: riferimento ai continui ordini di evacuazione da una zona all’altra e al piano per “concentrare” 600mila palestinesi in una improbabile “città umanitaria”.
Una certa perniciosa ideologia cristianista, molto forte oggi fra gli evangelici americani che supportano Trump (legatissimi alle correnti della destra religiosa ebraica) punta ad attizzare il fuoco dello scontro finale fra la croce e la mezzaluna. La Chiesa cattolica è troppo saggia per cadere in questo tranello. Dividere la comunità dei palestinesi cristiani da quella della maggioranza musulmana, a Gaza e non solo a Gaza, significherebbe condannarla all’estinzione.