Pubblichiamo l’intervista al cardinale Pierbattista Pizzaballa (di spalle nella foto di copertina, con Gabriele Romanelli, a Gaza) realizzata da Andrea Tornielli e Beatrice Guarrera per Radio Vaticana e pubblicata in versione scritta dall’ Osservatore Romano e Vatican News. L’intervista è rilevante per l’autorità che la rilascia, il patriarca di Gerusalemme dei Latini appunto, i media vaticani che l’anno rilanciata e le cose che vi si affermano, a pochi giorni dall’entrata in vigore di una tregua fragile e punteggiata di violazioni, ma che non contraddice ancora le speranze di costruire una pace duratura in Terra Santa.
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(Andrea Tornielli e Beatrice Guarrera, Città del Vaticano). Le speranze di costruire una pace duratura in Terra Santa, le difficoltà di Gaza e della Cisgiordania, il senso di comunità delle manifestazioni di piazza, che hanno unito le persone in nome della dignità dell’essere umano. Sono alcuni dei punti toccati dal patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, ospite nella mattinata di oggi, mercoledì 15 ottobre, negli studi di Radio Vaticana. Il porporato ha raccontato di una tregua fragile, ma anche dell’auspicio comune a israeliani e palestinesi che questa non sia una “parentesi”, quanto invece “che si possa riprendere a vivere con una nuova prospettiva che non sia la guerra e la violenza”.
Lei è a Roma per ritirare un premio, il premio Achille Silvestrini, che viene consegnato oggi a padre Gabriel Romanelli, il parroco della Sacra Famiglia di Gaza. Com’è la situazione dei cristiani di quella comunità che ha deciso di restare in quella situazione difficile?
Siamo in contatto quotidiano con loro. Scrivono sempre che ancora non ci credono di aver potuto dormire la notte senza sentire il suono delle bombe. Ci sono i droni, ma di questo sono abituati da anni. Per il resto la situazione è ancora molto fluida. Ci sono stati, come è noto, degli scontri anche tra le varie fazioni, ma tutto questo era prevedibile perché la sospensione della guerra – non ancora sappiamo se è conclusa – e le fasi successive sono ancora abbastanza indecise, imprecise, ambigue. È tutto da costruire, da organizzare ed era – ed è – prevedibile che ci siano alti e bassi. C’è ancora molto da fare. La situazione resta comunque drammatica, perché è tutto distrutto. Quindi la gente sta tornando ma sta tornando sulle macerie. Gli ospedali non funzionano, le scuole non ci sono. C’è ancora la questione delle salme degli ostaggi israeliani morti, che devono essere recuperate. Non è semplice anche perché, molto spesso, si è persa la localizzazione di queste salme in quel caos che c’è stato. La sfiducia è alta tra le parti. Però, al di là di tutto questo, c’è un clima nuovo che è ancora fragile, ma speriamo che si stabilizzi.
Come è possibile in questo contesto storico, in questo clima, costruire la speranza e la fraternità?
Ci vuole tempo, innanzitutto. Non bisogna confondere la speranza con una soluzione del conflitto, che non è immediata. La fine della guerra non è l’inizio della pace e non è la fine del conflitto. Bisogna tenere ben presente tutte questi aspetti. Ecco, però è naturalmente il primo passo. La speranza è, come dico sempre, figlia della fede. Se il tuo animo ha fiducia, può anche realizzare le cose in cui crede. Quindi bisogna innanzitutto lavorare su questo, con le persone che ancora vogliono rimettersi in gioco e creare questa rete, sia dentro Gaza che fuori Gaza, perché non dobbiamo separare i due lati dai confini. E creare fraternità. Io credo che ci sia bisogno di nuova leadership politica, ma anche religiosa. Credo che sia molto importante, abbiamo già cominciato a contattarci. Abbiamo bisogno di nuovi volti, nuove figure che aiutino a ricostruire una narrativa diversa, fatta sul rispetto l’uno dell’altro. Ci vorrà molto tempo perché le ferite sono profonde, ma non dobbiamo desistere. Dunque, c’è comunque speranza di poter costruire una pace duratura, anche se in questo momento siamo soltanto ai primi passi. Bisogna crederci, innanzitutto, bisogna volerlo. I tempi saranno molto lunghi, non dobbiamo farci illusioni che arriverà presto. E dobbiamo tener presente anche i fallimenti degli accordi precedenti, i tanti fallimenti che hanno minato in maniera molto seria la fiducia tra le parti. Ci saranno diverse fasi. Io penso che forse la prossima generazione avrà una libertà che oggi questa generazione non ha. Ma il compito di questa generazione è preparare la prossima. Quindi dobbiamo creare tutte, poco alla volta le premesse, le condizioni con nuovi volti, leadership e soprattutto creare contesti che, poco alla volta, creino anche una cultura di rispetto, che porti poi la pace.
Quali sono le speranze concrete di questa generazione, delle persone che voi incontrate quotidianamente a Gerusalemme o altrove?
In questo momento siamo in una fase nuova, ancora fragile. Noi veniamo da due anni orribili. E la speranza è che sia la fine di questi due anni e non invece una parentesi quindi questo è un augurio di tutti, comune a tutti, israeliani e palestinesi, destra o sinistra, sopra e sotto. Insomma, sono tutti desiderosi che si possa veramente voltare pagina. Questa è la prima cosa. Poi naturalmente ci sono opinioni diverse, sia politiche che religiose. Ci sono prospettive anche diverse. Però c’è anche tanto desiderio nella gente comune che si possa riprendere a vivere, non dico normalmente, ma con una nuova prospettiva che non sia la guerra e la violenza.
Abbiamo sentito in questi giorni delle testimonianze drammatiche delle condizioni con cui sono stati tenuti gli ostaggi di Hamas, che adesso sono stati liberati. E abbiamo sentito anche i racconti di degrado dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Che cosa si può dire su questo dolore che in qualche modo è per certi versi trasversale? E anche sul fatto che si riesca a costruire un futuro che non parta dall’odio?
È uno dei drammi che abbiamo vissuto in questo tempo. Lei ha detto “il dolore trasversale”, ma non è stato percepito così. Ciascuno era chiuso nel proprio dolore, quindi ciascuno vedeva soltanto il proprio dolore, la propria prospettiva, il dolore della propria gente. E come anche altri hanno detto, ciascuno era talmente pieno del proprio dolore che non aveva spazio dentro di sé per il dolore dell’altro. Adesso che questa situazione è finita, forse possiamo poco alla volta aprirci a comprendere anche il dolore dell’altro. Comprendere, non significa giustificare: ci vorrà tempo per tutto questo e non so nemmeno se si riuscirà. L’odio che è stato seminato, non solo in questi due anni che è esploso – ma anche prima c’era, una narrativa del disprezzo, del rifiuto, dell’esclusione – richiede un nuovo linguaggio, nuove parole che hanno bisogno però anche di nuovi testimoni. Non puoi separare ciò che si dice da chi le dice. Quindi, ripeto, abbiamo bisogno di nuovi volti, che ci aiutino a pensare in maniera diversa.
Qual è la situazione invece in Cisgiordania, nelle parrocchie nei piccoli villaggi, come per esempio Taybeh, Zababdeh o Aboud? In questo momento qual è il ruolo dei cristiani e dei cattolici, come i cattolici di lingua ebraica che sono pienamente inseriti nella società israeliana?
Sono due questioni molto diverse. Nei territori della Cisgiordania la situazione generale, non soltanto delle comunità delle nostre parrocchie cristiano cattoliche, è molto fragile e in continuo deterioramento. Le comunità dei villaggi citate sono sempre più isolate l’una dall’altra: sono centinaia i checkpoint che regolano gli spostamenti interni, rendendo sempre più difficoltosa la situazione. È diventata, l’ho detto diverse volte, una sorta di “No law land”, nel senso di “un territorio senza legge” perché ci sono molti attacchi e tensioni anche con i coloni che però restano tali, nel senso che non abbiamo un’autorità di riferimento al quale rivolgerci, per fermare queste situazioni, che sembrano anziché piuttosto sostenute. Questo crea grosse tensioni e anche molta insicurezza all’interno delle nostre parrocchie e delle comunità in generale. In Cisgiordania la situazione resta molto fragile, non solo dal punto di vista politico, ma anche da quello economico. Le due grandi risorse, il pendolarismo in Israele e i pellegrinaggi sono sospese in questo momento e non sappiamo come e quando riprenderanno. Questo crea un impatto molto forte anche sulla vita della gente, soprattutto dei cristiani. La comunità cattolica di espressione ebraica è composta da piccole comunità di poche centinaia di persone, che hanno accolto anche diverse centinaia di bambini figli di migranti o di lavoratori stranieri in Israele. Credo che il loro ruolo sia importante soprattutto all’interno della Chiesa, più che fuori dalla Chiesa. In un certo senso costringono la nostra diocesi, che è molto complicata, a pensare in maniera larga, a non concentrarsi solo sulla questione palestinese, ma a tenere presente che anche all’interno della società israeliana c’è dolore, ci sono prospettive, ci sono visioni diverse che devono essere prese in considerazione.
Abbiamo assistito nelle ultime settimane a una mobilitazione popolare, a manifestazioni, come quelle che ci sono state in Italia, dove milioni di persone sono scese in piazza. Al di là di gruppuscoli estremisti e di alcuni slogan inaccettabili, ci sono giovani che scendono in piazza mostrando di voler superare la logica dell’indifferenza…
Certamente ci sono stati degli eccessi sia di violenza anche ma anche di linguaggio contro l’ebraismo, ad esempio. Questo è inaccettabile. Ci sono state parole o dichiarazioni che possono anche giustificare, in qualche modo, l’antisemitismo che noi rigettiamo in maniera totale e completa, questo va detto. Ma non possiamo generalizzare, dire che erano tutti così: c’era tantissima gente, non solo giovani. La cosa che mi ha colpito è che c’erano migliaia di persone di diverse estrazioni e generazioni, ma anche di appartenenze politiche diverse, che erano unite nel dire no alle immagini di violenza a cui avevano assistito. E questo, secondo me, è un aspetto positivo, perché ha risvegliato una coscienza non solo personale ma anche comunitaria, perché erano uniti. In questo si faceva comunità. Credo che sia un aspetto importante, questo di fare comunità, di fare aggregazione su qualcosa di bello come la dignità della persona e il rifiuto della violenza, linee rosse che non si devono superare anche nell’esercizio della difesa. Questo è stato un aspetto molto bello e positivo. Speriamo che continui. Credo che sia una presa di coscienza importante, anche per i vari leader religiosi e politici, tenere presente che c’è, dentro la coscienza della comunità, qualcosa di bello che deve essere custodito e che forse deve trovare una espressione anche al di fuori di questo contesto di guerra.
Adesso, tornando sempre alla Terra Santa, vi aspettate un ritorno dei pellegrini?
Ce lo auguriamo. Ne ho parlato con il Custode di Terra Santa per fare qualcosa insieme, come dei comunicati. Aspettiamo 2 o 3 settimane per capire un po’ come vanno le cose. E poi penso che dovremo cominciare a “martellare”, in qualche modo, soprattutto le Chiese che sono state molto vicine alla Terra Santa in questi due anni. Per dire, è tempo di esprimere solidarietà non solo con la preghiera, che è importantissima e anche con l’aiuto, ma con il pellegrinaggio.
Sono 30 anni quest’anno dell’omicidio di Rabin, un uomo di pace. Quanto è importante che ci siano nuove leadership che scommettono sulla pace? Ci sono segnali positivi in questo senso?
Io credo che sia uno degli aspetti decisivi. L’ho detto e l’ho ripetuto tante volte. Lo ripeto anche qui: abbiamo bisogno di nuovi leader che parlino un linguaggio diverso da quello che abbiamo ascoltato in questi ultimi anni. Non solo politici, ma anche religiosi. 30 anni fa Rabin diceva una cosa e i religiosi ne dicevano un’altra. Adesso è necessario cambiare, è necessario prendere coscienza di questo. E in questo contesto il dialogo interreligioso è molto importante. Anche il dialogo interreligioso, secondo me, ha bisogno di nuovi volti e non può non tenere conto di quello che è accaduto, che ci ha ferito tutti. Abbiamo bisogno di prendere in considerazione quello che è stato, quello che ci siamo detti e non ci siamo detti, non per fermarsi lì, ma per andare oltre, perché ne abbiamo preso coscienza. Abbiamo bisogno di andare oltre, tenendo presente quello che è stato, quindi senza essere troppo ingenui. Le difficoltà sono tante, però abbiamo un dovere nei confronti delle nostre comunità, che è quello, appunto, di aiutarle a guardare oltre, in maniera positiva e serena per un futuro diverso.
Che cosa pensa del dibattito che c’è stato a livello internazionale sul riconoscimento da più parti dello Stato palestinese?
I palestinesi non hanno solo bisogno di fermare la guerra, di fermare la violenza e di essere aiutati e sostenuti economicamente. Hanno bisogno anche di essere riconosciuti nella loro dignità di popolo. Io non so se la soluzione “due popoli, due Stati”, tanto affermata, sia realizzabile nel breve termine. Non entro dentro queste questioni. Ma non puoi dire ai palestinesi che non hanno diritto di essere riconosciuti come popolo a casa loro. Ci sono state dichiarazioni, che molto spesso restano di principio, che devono trovare una loro realizzazione dentro il contesto di dialogo tra le parti, che dovranno trovare loro sicuramente con l’aiuto e il sostegno della comunità nazionale.
Come avete sentito la vicinanza del Papa in questo tempo?
Di Papa Leone abbiamo sentito la vicinanza. Abbiamo sentito la vicinanza di Papa Francesco prima, poi anche di Papa Leone, che hanno due caratteri diversi ma hanno espresso la loro vicinanza in maniera molto concreta: con le chiamate al telefono, con contatti abbastanza frequenti con il parroco di Gaza, che però non fanno notizia. E va bene così, è importante anche questo, perché si devi fare una cosa per il bene della cosa, non perché vada in pasto ai giornalisti. La vicinanza è stata espressa anche in maniera molto concreta, con aiuti concreti. Adesso l’ultimo gesto che abbiamo ricevuto, un paio di giorni fa, è il desiderio del Papa di inviare migliaia di antibiotici dentro la Striscia di Gaza.