Dopo gli anni del Perù, con León de Perú, eccoci a quelli che li precedono (Nella foto di copertina Prevost negli anni del liceo). Il documentario Leo from Chicago completa la vita di Robert Prevost, da poco più di sei mesi Leone XIV. Un itinerario negli Usa, terra natale del Pontefice, tra voci, immagini e testimonianze sulla figura, la storia, le radici, i legami e la vocazione di colui che dall’8 maggio 2025 guida la Chiesa cattolica universale. Dal 10 novembre lo si può vedere in tre lingue (inglese, italiano, spagnolo) sui canali di Vatican News e su YouTube.
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(Salvatore Cernuzio, Vatican News). «Rob», il fratello; «Bob», il confratello; «Robert», l’amico, il compagno di studi, di scampagnate e di manifestazioni per i diritti umani; «Prevost», lo studente in gamba, il missionario, il «leader» alla guida di uno degli ordini religiosi più diffusi nel mondo. E poi «Leo», il Papa. Il Pontefice di cui tutti in Perù erano convinti dell’elezione, mentre in America ci speravano, sì, ma ci credevano poco «perché americano».
Nella sua terra natale, Chicago (Stati Uniti), Robert Francis Prevost ha sempre lasciato un segno in chiunque l’abbia incontrato, molto prima di diventare Leone XIV. Merito di un tratto umano garbato, gentile, abbastanza riservato, non tanto da impedirgli di socializzare e farsi nuovi amici. Come quella volta nella Beaubien Woods, il bosco a pochi km dalla sua casetta natale a Dolton, periferia di Chicago, dove si avventurò in bicicletta con il fratello maggiore Louis, imbattendosi in una gang di ragazzi che minacciava di picchiarli. «Rob ha detto: “Lascia che ci parli io”. È sceso, si è avvicinato e in qualche modo li ha calmati. Li ha resi… amici», ricorda lo stesso Louis, oggi residente in Florida, in contatto ogni sera con l’illustre fratello e col fratello di mezzo, John – detto Jay -, tramite videochiamata («Di solito stiamo dai 15 ai 20 minuti al cellulare, solo per raccontare quello cosa stiamo facendo, cosa sta facendo lui»).
Un aneddoto, questo dell’infanzia, che non vuole dimostrare una unicità a tutti i costi di colui che dall’8 maggio è stato eletto Pontefice della Chiesa universale, bensì aiutare a scoprire una personalità che, sin dai primi anni di età, si è mostrata propensa al dialogo, al confronto, all’amicizia. All’amicizia con confratelli, con coppie e famiglie, anche con un pastore luterano – John Snider di Minneapolis – che, quando non andava con lui al cinema a vedere The Blues Brothers, trascorreva le cene a «mettere in discussione alcune delle pratiche cattoliche». Tutte caratteristiche, queste del dialogo, del confronto e dell’amicizia, profondamente agostiniane. Vocazione che il giovane “Bob” («Ora è Leo, ma nel mio cuore è sempre Bob», dicono tutti a Chicago) ha abbracciato negli anni della giovinezza e che è stata il sentiero sul quale ha mosso i suoi passi durante gli studi alla Villanova University di Philadelphia e alla Catholic Theological Union di Chicago.
«Era rispettoso nei confronti di uomini e donne allo stesso modo. Non c’era alcun dubbio che fosse concentrato sulla sua vocazione ma questo includeva avere amici molto cari», racconta Mary Donar-Reale, amica di Prevost dai tempi della Villanova, compagna non di corso ma di viaggi a Washington con il “Pro-life group” per partecipare alla March for Life, la manifestazione in difesa della vita e di tutti i diritti umani. Quelli di cui padre Robert si fece promotore negli anni in Perù, dove scelse di partire a seguito di un tragico incidente che dimezzò la missione agostiniana. Un momento spartiacque per la sua vita: «Avrebbe potuto insegnare in seminario o avere un grosso incarico in una diocesi o in un’arcidiocesi», racconta l’agostiniano padre Tom McCarthy, amico di lunga data. «Dopo aver studiato per tutto quel tempo per ottenere il Dottorato in diritto canonico, alla fine dove è andato? Dai poveri… Dai poveri, che hanno bisogno della predicazione di Gesù».
Una scelta frutto anche degli studi in Dottrina sociale della Chiesa, materia che lo ha sempre appassionato, come ricorda sister Dianne Bergant, frizzante religiosa docente del futuro Papa alla CTU. «Ho sentito dire spesso che era un ragazzo molto devoto e che giocava a fare il prete. Beh, anche io ero una ragazza molto devota e giocavo “a fare il prete”. Non è raro nei bambini che hanno avuto una educazione religiosa, voler essere qualcosa nella Chiesa. Ciò che è notevole in lui è il modo in cui ha utilizzato ciò che gli è stato dato da Dio, dalla natura, come l’ha usato, le decisioni che ha preso. Non è stato portato su un piedistallo ma si è messo a servizio di altre persone. Questo lo ha reso eccezionale».






